Il tre agosto ci lasciava Antonio Pennacchi, scrittore. Uno dei personaggi che hanno segnato, dal punto di vista letterario, in Italia e non solo, i primi anni di questo secolo. Sulle pagine de La Repubblica, tentandone un ritratto, Paolo Di Paolo lo descrive così: L’aria di chi è sicuro, e lancia giudizi apodittici, ma non lo è fino in fondo, perché sa – sotto i baffi – che niente è assoluto, niente. Tanto meno le convinzioni, le idee. “Il dramma della condizione umana è proprio questo: sei quasi perennemente condannato a vivere nel torto, pensando peraltro d’avere pure ragione”. Non è mai facile racchiudere un personaggio in poche righe, e nel caso di Pennacchi è forse impossibile, ma queste poche righe hanno molto a che fare con “L’autobus di Stalin”.
Il testo nasce poco dopo l’invasione dell’Iraq (2003) da parte degli Stati Uniti che dal 2001, dopo gli attentati delle torri gemelle, avevano avviato l’operazione Enduring freedom (libertà duratura) in Afghanistan. Purtroppo i fatti rimandano all’attualità sconcertante del testo. La critica alla fallibilità del tentativo di esportare un sistema politico e culturale è uno degli elementi cardine del testo. Portata fino all’estremo l’analisi diviene riflessione sulla efficacia stessa del sistema democratico aprendo spiragli che rimandano all’idea di un Dio come espressione dell’uomo che sappia prescindere dall’individuo riconoscendo il senso di sé nel flusso storico dell’umanità intera.
A molti potrebbe essere capitato viaggiando sopra un autobus sulla strada di una grande città di incrociare un altro autobus, magari diretto in senso opposto, ma fermo come il vostro in mezzo al traffico. Come è strano sentirsi immediatamente parte di una comunità ed estraneo ad un’altra. Ed è su un Autobus che ci troviamo a riflettere proprio sulla nostra comunità, quell’enorme gruppo sociale al quale noi stessi apparteniamo e che identifichiamo come società occidentale, e alla quale spesso concediamo l’appellativo di “democratica”. E’ proprio sul senso di appartenenza che si gioca il disegno dell’allestimento, siamo nello stesso luogo, insieme, nello stesso momento e ci stiamo muovendo in una direzione comune.


Un serrato soliloquio controcorrente, a tratti ironico a tratti serio e analitico, corredato da cifre e documenti.
Tonino Bucci (Liberazione)

Un’ analisi originale, che lascia l’amaro in bocca e la voglia di pensare un po’ di più al presente e al passato
Giovanna Crisafulli (La Repubblica)

Clemente Pernarella interpreta bene la scrittura cimentandosi in un monologo mai noioso dal ritmo scorrevole e vivace
Giorgia Massaccesi (teatroteatro.it)

Non è facile raccontare il monologo di Pernarella; non è semplice tradurre lo stile e la leggerezza dei modi interpretativi che l’attore ha saputo addurre ad un testo complesso. L’esito però ha una sola possibile declinazione in quanto all’efficacia e al linguaggio che costituiscono lo spettacolo: davvero perfetto!
Roberto Lacarbonara (Eventi culturali)

Quando Clemente Pernarella vaga sulla scena come cane senza padrone tra i guardrail di quella pianura pontina, alla quale appartiene tanto quanto Pennacchi, sembra di vedere in un solo corpo Tristano e il suo Amico oppure Prometeo e Momo che dibattono se credere o meno che questo secolo sia superiore agli altri passati e che la specie umana vada ogni giorno migliorando. E si esce dal teatro dopo poco più di un’ora di provocazioni ragionate persuasi almeno quanto il personaggio Pennacchi che ci sarebbe ancora bisogno di una buona teoria della storia.
Dice: “Vabbè, ma che vuol dire?”. Ah non lo so, ma qualche cosa vorrà pure dire.
Lorenzo Pavolini (Nuovi Argomenti)

di Antonio Pennacchi
con Clemente Pernarella
e con Massimo Gentile e Roberto D’Erme
regia Clemente Pernarella
videoproiezioni Nicholas Perinelli e Alessandro Marascia
disegno luci Gianluca Cappelletti
musiche Angelo Longo

venerdì 19 Novembre – 20:45
20:45

Teatro Fellini Pontinia

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